Un breve excursus sul processo di definizione e differenziazione tra sesso, genere e orientamento sessuale con accenni sui concetti di omofobia e minority stress.
Cosa si intende per "sesso" e come si differenzia dal "genere"?
In generale, il termine “genere”, mutuato dalla linguistica e dalla filosofia, viene utilizzato per la prima volta negli anni 50' per distinguere le categorie psichiche di maschile e femminile (gender) dal sesso biologico.
Nello specifico, il termine “sesso” si riferisce allo stato biologico di un individuo e può essere di tre tipi: femmina, maschio o intersessuale (più comunemente detto "ermafroditismo", si riferisce alla compresenza nello stesso individuo di caratteri sessuali maschili e femminili).
Invece, il termine “genere” fa riferimento agli atteggiamenti, sentimenti e comportamenti che una data cultura associa al sesso biologico di un individuo.
A sua volta, con "genere" si può far riferimento a:
Identità di genere: senso soggettivo di appartenere alle categorie di maschio o femmina che non sempre corrisponde alle caratteristiche sessuali biologiche. Quando l’individuo non trova corrispondenza tra il percepirsi uomo o donna e il proprio sesso biologico, egli può definirsi o essere definito “transessuale”;
Ruolo di genere: il modo in cui una persona esprime all’esterno e negli atteggiamenti il proprio genere in riferimento alla cultura di appartenenza (modo di vestirsi, parlare, muoversi ma anche interessi, discorsi). Detto volgarmente, il ruolo di genere fa riferimento all’essere più o meno “maschiacci” o “femminucce”.
Tuttavia, ricerche recenti confermano che la maggior parte di noi non si colloca perfettamente né in ruoli maschili né in quelli femminili, ovvero possiamo definirci “androgini” poiché oscilliamo in egual misura nell’assumere sia ruoli socialmente intesi come maschili che femminili.
Cosa si intende per orientamento sessuale?
Quante tipologie di sessualità esistono?
L’aria dei Gender Studies si è notevolmente sviluppata a partire dalla fine degli anni Sessanta, nel momento in cui sono state messe in discussione le teorie antiche sulla sessualità e sugli stereotipi sociali connessi. Grazie a questi studi sono stati fatti molti passi in avanti nella comprensione delle relazioni intersoggettive e delle diverse sessualità, ad esempio, attraverso il processo di graduale depatologizzazione dell’omosessualità.
A tal proposito, se l’identità di genere riguarda il proprio Sé in merito alla percezione soggettiva di essere un uomo o una donna, l’orientamento sessuale rappresenta invece l’oggetto verso cui non solo è rivolta l’attrazione erotica ma anche l’investimento affettivo e relazionale.
In questo senso, l’orientamento sessuale risponde alla domanda:
Da chi sono attratto?
Di chi mi innamoro?
Con chi mi vedo in relazione ora e nel futuro?
Gli orientamenti sessuali più diffusi sono l’eterosessualità (verso il sesso opposto), l'omosessualità (verso lo stesso sesso) e la bisessualità (verso entrambi i sessi).
Con tutti questi elementi una persona può forgiare la propria “identità sessuale” che fa riferimento all’esperienza soggettiva nel vivere il proprio orientamento includendo anche le modalità attraverso cui viene comunicato agli altri.
UN ACCENNO AL PROCESSO DI DEPATOLOGIZZAZIONE DELL'OMOSESSUALITA'
A metà del XX secolo, gli studi di Alfred Kinsey e di Evelyn Hooker inaugurano il così detto processo di depatologizzazione dell’omosessualità.
Kinsey ha rivoluzionato le concezioni sulla sessualità umana proponendo una scala che contempla diverse tipologie e sfaccettature di orientamento sessuale in un continuum che va dall’eterosessualità esclusiva (punto 0) all’omosessualità esclusiva (punto 6).
Inoltre, Kinsey nel suo modello mette in risalto conferendone la giusta importanza anche l'orientamento "asessuale" (quando nell'individuo non è presente l'attrazione fisica né per l'uno né per l'altro sesso).
Alla psicologa Hooker va invece il merito di aver condotto un esperimento a lungo termine in gruppi di eterosessuali e omosessuali valutati in cieco rispetto all’orientamento sessuale.
I risultati dell’esperimento confermavano che i due gruppi non potevano distinguersi dal momento che non vi erano indicatori di psicopatologia dell’omosessualità.
Tuttavia, il cambiamento di rotta più significativo arriva solo nel 1973, quando l’American Psychology Association (APA) elimina dal DSM-III la categorizzazione patologica dell’omosessualità, addirittura relegata fin ad allora alle devianze sessuali similmente alla pedofilia.
Nonostante ciò, nella versione successiva del DSM-III, l’omosessualità rimane categorizzata nella sua variante “egodistonica” (ovvero quando la persona non la desidera rispetto alla propria identità).
Sarà solo nel 1987 che l’APA deciderà di eliminare anche questa variante, dopo aver riconosciuto lo stretto legame tra lo stigma sociale e quello che la persona omosessuale vive diretto verso il proprio Sè “omofobia interiorizzata”.
Così nel 1990 l’Organizazzione Mondiale della Sanità (OMS) decide di eliminare definitivamente la diagnosi di omosessualità nei sistemi di classificazione diagnostica.
Ad oggi, anche le ricerche empiriche che hanno indagato le capacità genitoriali di coppie omosessuali possono confermare l’impossibilità di rintracciare elementi psicopatologici da associare a questo orientamento persino nella situazione di parenting; inoltre, si conferma che l’essere un genitore omosessuale non è un fattore correlato a potenziali disturbi nei figli (American Psychological Asssociation, 2005; Perrin et al., 2002; Perrin et al., 2013; Tasker, 2005).
Ciò può far comprendere come le capacità genitoriali siano delle risorse indipendenti dall’orientamento sessuale, identità o ruolo di genere; in altre parole, è stato dimostrato che determinati disturbi psicologici che i figli possono sviluppare in età adulta non correlano con il possedere genitori gay o lesbiche ma si associano alla mancanza di cure genitoriali indipendentemente dall'identità di genere o orientamento sessuale.
Nientemeno, in altri studi si rivela che il peso dello stigma percepito in genitori omosessuali potrebbe innescare in alcuni di essi una maggiore resilienza rispetto ad altri eterosessuali, potenziando il lavoro sulla propria persona e di conseguenza sulle capacità genitoriali.
OMOFOBIA E MINORITY STRESS
Con la depatologizzazione dell’omosessualità, l’attenzione dei professionisti della salute mentale si è spostata dalla ricerca sull’omosessualità alla ricerca sul pregiudizio antiomosessuale (omofobia) e alle sue conseguenze sulle persone non eterosessuali ("minority stress", omofobia interiorizzata o stigma percepito).
L’omofobia è stata inizialmente definita da George Weinberg come “paura di trovarsi in spazi chiusi con persone omosessuali”.
In seguito, Morin e Barfinkel la definiscono come un “sistema di credenze e stereotipi che mantiene giustificabile e plausibile la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale; l’uso di un linguaggio o slang offensivo per le persone gay/lesbiche; qualsiasi sistema di credenze svaluti gli stili di vita omosessuali”.
Blumenfeld individua quattro livelli diversi di omofobia:
personale - che riguarda i pregiudizi individuali verso gay e lesbiche;
interpersonale - quando questi pregiudizi si traducono in comportamenti offensivi diretti all’altro;
istituzionale - si riferisce alle politiche discriminatorie delle istituzioni (ad esempio, aziende, associazioni religiose, governo);
sociale - stereotipi sociali su persone non eterosessuali che si riversano nella mancanza di inclusività di quest’ultime negli eventi sociali.
Lo stigma percepito o “minority stress” riguarda invece il livello di vigilanza relativo alla paura di essere “etichettato” come omosessuale, per cui quanto è maggiore la paura del rifiuto, tanto più saranno elevati il livello di allerta e di sensibilità agli stimoli ambientali.
Ne consegue che lo stigma percepito può recare stress significativo nei vari domini di vita di persone gay o lesbiche dando vita a pensieri come: “questo è successo perché sono omosessuale” oppure “devo stare attento a dire che sono gay altrimenti mi discriminano”.
Lo stigma percepito impatta anche il proprio “coming out” (ovvero, la dichiarazione ad altri significativi del proprio orientamento) con la conseguente paura di non sapere quali reazioni ciò può suscitare negli altri.
CONCLUSIONI
Senz'altro la scienza ci ha aiutato a comprendere che gli elementi che compongono la nostra identità sessuale, la quale rientra nel processo continuo di costruzione della nostra identità globale durante il ciclo di vita, possono essere vari e sfaccettati e che tutto ciò deriva sia dalla propria natura che da fattori ambientali.
Tuttavia la cultura, in particolare l'aspetto religioso, ha rafforzato nei millenni i nostri pregiudizi promulgando valori, modi di pensare e comportamenti esclusivamente"eteronormativi". Secondo una visione laica in larga parte questo è avvenuto per promulgare messaggi di protezione rispetto alla promiscuità sessuale e alle conseguenti malattie sessualmente trasmissibili.
Tuttavia, per quanto gli stereotipi sociali sussistano nel tempo e di conseguenza nella nostra società non sembra ancora esserci una tutela sufficiente a livello giuridico per chi è transgender oppure non è eterosessuale, veicolando così la percezione di un mondo esterno minaccioso e imprevedibile, si può sempre scegliere di lavorare su sé stessi trasformando questa sofferenza in una risorsa, nella speranza di crescere nelle relazioni e soprattutto di giungere ad una buona accettazione di sé.
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